La Mostra del Cinema di Venezia è un appuntamento che per me è diventato imperdibile. Quest’anno, in occasione della settantacinquesima edizione, sono riuscita a partecipare alla giornata di chiusura, l’8 settembre.
Quando si arriva a Venezia, si è immersi in un’atmosfera speciale: il vociare dei veneziani, ormai, è sempre più sommesso, mentre le orde di turisti invadono la stazione, le calli, i ponti e i luoghi più probabili (e anche improbabili).
L’ultimo giorno della Mostra del Cinema, la città era in completa agitazione: le file ai vaporetti quasi chilometriche sembravano dei millepiedi composti da persone comuni arrivate un po’ per caso. Turisti appesantiti da zaini e valigie, ma anche da gente eccentrica con un abbigliamento che faceva strabuzzare gli occhi. Tra panciotti, uomini dal mocassino consunto, ma vistoso, io mi sono sentita un’esploratrice che doveva annotare nel diario della sua mente ogni dettaglio, non tanto per condividerlo sul blog, ma soprattutto per ricordarmi di questo caleidoscopio di colore.
Arrivata al Lido di Venezia, quella folla che sembrava essere un tutt’uno, un unico corpo in movimento, si è magicamente dispersa. Sono rimasta io, col mio vestitino rosso a pois, a godermi uno spettacolo nello spettacolo. Il Lido, addobbato per l’occasione e tinto di rosso, mi ha accolta come se fosse stata la prima volta.
Dopo aver raggiunto il Lungomare Marconi, mi sono fermata ad osservare il Palazzo della Mostra del Cinema di Venezia, che da lì a poche ore avrebbe visto sfilare sul tappeto rosso quelle celebrità tanto chiacchierate. Mi sono sentita incredibilmente minuscola, davanti ad un colosso, che sfida dal 1932 il cielo terso del Lido, ed espone con fierezza la gloria del cinema internazionale.
Ho scelto di vedere un film e un insieme di corti, alcuni si sono rivelati illuminanti, altri mi hanno lasciata decisamente spiazzata, ma anche questo è il cinema, e lo sguardo del pubblico – come quello dell’altro – non è quasi mai clemente.
Kucumbu Tubuh Indahku (Ricordi del mio corpo), di Nugroho, ha raccontato la storia di Juno, un ballerino di danza tradizionale proveniente dal villaggio di Giava Centrale. I personaggi del film, ben caratterizzati, gravitavano intorno al protagonista e, come in un teatro delle ombre, sparivano non appena l’orbita di Juno cambiava. Mi sono affezionata ad un pugile che combatteva come se stesse danzando, ma non sono riuscita a capire a pieno l’anima del protagonista, che raccontava la sua storia attraverso le movenze del suo corpo. Ho seguito con attenzione le direzioni delle mani e dei corpi, che spesso sono anche le direzioni del nostro cuore.
L’insieme di corti che ho potuto guardare, mi ha coinvolto emotivamente, anche se spesso lasciandomi interdetta. Tra quelli più rilevanti, indicherei Kado, di Aditya Ahmad, che è stato premiato come miglior corto con il premio Orizzonti, e Gli anni di Sara Fgaier.
Kado racconta la storia di Isfi, una ragazzina dall’aspetto androgino che con gli amici si veste da uomo e si comporta come un ragazzo, ma che per frequentare la sua amica del cuore deve indossare il tradizionale hijab. L’ultima battuta del corto mi ha letteralmente spiazzata: Isfi, insieme ai suoi amici, vuole accompagnare uno dei ragazzi più impacciati del gruppo da delle prostitute. All’arrivo di un transessuale, la compagnia si lascia andare ad alcune battute di disprezzo verso la persona transessuale. Improvvisamente lo sguardo di Isfi diventa vacuo, ho sentito dentro di me quel vuoto che si prova quando si è giudicati dalle persone a cui si tiene, che emettono dei giudizi senza pensare di poterci ferire.
Gli anni è un insieme di vecchie pellicole che raccontano una storia, quella di alcune memorie ritrovate sulle rive di una Sardegna senza un tempo preciso. Racconta la storia di una donna, della sua famiglia, del passare inesorabile del tempo che ne ha indurito la scorza e spezzato il cuore. Quando i fotogrammi scorrevano, ascoltando la lettura, mi sono commossa profondamente. I ricordi proiettati sullo schermo sembravano quasi seguire il ritmo delle mie lacrime (o forse era il contrario).
Terminate le proiezioni, uscita dalla sala, ho ritrovato la luce che, sebbene inizialmente mi abbia accecata, mi ha fatto ricordare che era il mio turno. Dovevo continuare a vivermi la giornata e girare finalmente il mio film. Quello di una non turista, ma neanche di una veneziana, che si è persa tra le vie del Lido, e ha passato alcuni minuti col naso all’insù per guardare meglio ciò che la circonda. E che poi, dopo aver percorso il viale, ha sorseggiato una bibita sedendosi a pochi passi dalla spiaggia, quasi come per spiare delle buffe vecchiette agghindate da parei e cappellini di paglia.
Ritornata al Palazzo del Cinema, ho aspettato l’arrivo dei VIP. La folla era sempre più numerosa. I fotografi, ma anche i comuni mortali, erano appollaiati su delle scalette per poter abbracciare con lo sguardo quella sfilata di glitter, paillettes e toupet. Nonostante le spinte, le proteste per il posto soffiato all’ultimo minuto da un nuovo arrivato, e i cellulari alzati, mi sono goduta quello spettacolo fuori dal comune, tra un “Ma quello chi è?” e la risposta più assurda, sebbene così scontata, “Non lo so, tu intanto fotografalo”.
Mostra del Cinema di Venezia 2018. Foto di Matteo Trevisan
Bellissimo resoconto : grazie 🙂
Grazie a te per la lettura!