Critica e Attualità, Cultura

Le parole del femminicidio

Le parole del femminicidio sono ignobili e vergognose, intrise di sangue e di ingiustizia.

Andiamo a leggere un fatto di cronaca di alcuni anni fa, avvenuto a Piacenza. Si tratta dell’ennesimo femminicidio. Massimo Sebastiani, tornitore, che ha ucciso Elisa Pommarelli, una ragazza di appena ventotto anni.

Elisa aveva pochi anni in più di me, era una giovane come tante, come tutte noi.

Il suo assassino era un presunto amico, una persona fidata, che aveva sviluppato verso di lei un’ossessione morbosa non corrisposta.

Una vicenda terribile, come se ne sentono ogni giorno, direte. Una storia tremenda che coinvolge un colpevole e un’innocente, ancora una volta una donna, e che merita giustizia.

Eppure, dalla stampa si legge altro. Si legge che l’assassino, Massimo Sebastiani, in realtà è un omone che ha fatto una stupidaggine, che gesticola in modo impacciato quando, ai carabinieri, si confessa. Non trova le parole, Massimo. Forse perché è un uomo semplice, forse perché è vinto dalle lacrime. Non parla troppo il Sebastiani, ma accompagna direttamente i carabinieri sul luogo del crimine; non riesce proprio a trovare le parole per spiegare quell’orrendo gesto, frutto in realtà di un’incomprensione di fondo.

Queste parole in grassetto non nascono da una mia rilettura patriarcale della vicenda, ma sono estratte direttamente dall’articolo di giornale da cui ho appreso la notizia. Articolo che, ora cito direttamente, per farvi notare alcune cose:

[…] alla lunga è risultato frustrante per Sebastiani, un uomo che tutti descrivono molto istintivo, uno un po’ selvaggio, capace di arrampicarsi sugli alberi e di correre a piedi nudi nella ghiaia. Una persona di animo semplice che forse non ha saputo elaborare un legame che avrebbe voluto essere molto diverso da quella amicizia che prescindeva da un rapporto più intimo. Forse sta proprio qui la chiave del dramma. […] Forse Elisa ha respinto per l’ennesima volta gli assalti di Sebastiani ribadendo quel limite che nel pomeriggio di una domenica di agosto, dopo un pranzo, il caldo e forse qualche bicchiere, è risultato insopportabile per Sebastiani.

L’assassino, prima descritto come un uomo buono, di poche parole e un po’ in difficoltà nell’esprimersi con gli altri e con stesso, era profondamente frustrato da quel rifiuto che gli è risultato insopportabile. Era un uomo di animo semplice, che non ha saputo spiegarsi come mai Elisa, la vittima, lo abbia rifiutato.

Leggendo questo articolo, da essere umano, sono indignata. E da donna, quale sono, sono ancora più indignata perché di Elisa, la vittima, si legge appena. Della sua morte tremendamente ingiusta, sappiamo ben poco. Sappiamo invece molto di Massimo, il suo assassino.

L’autore ne traccia un profilo psicologico che cerca di toccare il lato empatico del lettore medio: Sebastiani non è un assassino, un colpevole (eppure lui stesso si è dichiarato tale), ma un’anima semplice vittima di fraintendimenti, incomprensioni, unite ad un carattere selvaggio e una mente limitata.

Elisa è una “vittima”, che ha perso la vita perché ha respinto molte volte un uomo fragile, che anche a causa del vino e del caldo di agosto, è stato spinto a compiere un gesto efferato. Mi verrebbe da dire che, improvvisamente, vino e solleone causano giustificata incapacità di intendere e di volere o annebbiamento?

Qui le parole si usano a sproposito, ma io non voglio perderle, non finché avrò una bocca, una penna, un computer o un piccione viaggiatore. Perché dobbiamo dire basta, tutti e tutte, a gran voce.

Non entro in merito all’omicidio, l’ennesimo.

Non entro in merito alla tragedia, perché non lavoro nel corpo della polizia e non sto indagando su un caso di femminicidio.

Entro in merito su queste parole, le parole del femminicidio, e su come le usiamo.

Non sono solo parole, diceva la Cortellesi al David di Donatello del 2018. E no, non lo sono.

Le parole sono pietre, sono spade, sono armi che possono farci vincere guerre e perdere la vita.

E qui, con questo articolo, Elisa sta perdendo la vita per la seconda volta perché il suo aguzzino, un assassino, sembra legittimato ad averla uccisa proprio da queste parole. D’altra parte, era un uomo semplice, buono, un po’ selvaggio, accaldato e un po’ inebetito dall’alcol.

Queste sono le parole del femminicidio e voi avete usato quelle più sbagliate, ancora una volta.

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